Orwell e "La fattoria degli animali"
- Sara Madama
- 14 nov 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 26 gen 2021
“Detesto ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Chissà se e quante volte Eric Blair, in arte George Orwell, avrà pensato a questa frase di Voltaire, o meglio attribuita a Voltaire (il filosofo non pronunciò mai la celebre frase!) al quarto rifiuto editoriale di quel romanzo che oggi tutti noi conosciamo: “La fattoria degli animali”. Cosa succede quando non è la censura ufficiale, ma un tacito patto dettato dalla paura e da meri interessi politici ed economici a scegliere quale verità può essere detta e in che modo può essere detta? Come se fosse creta da plasmare a proprio piacimento. Per dirlo alla Orwell: cosa pensare quando due più due può e deve fare cinque? Per ora bypassiamo la risposta a questa domanda e ci limitiamo a tentare di rispondere a un’altra: cosa avrà pensato l’autore ascoltando non l'ennesimo rifiuto, ma finalmente un lume di speranza per la pubblicazione? Immaginiamolo fra questi pensieri seduto su di una panchina a fumare un sigaro indiano.
Orwell e "La fattoria degli animali"
In un pomeriggio qualunque di metà autunno, seduto su di una panchina qualunque di una qualunque stradina di Londra, Eric Blair, in arte George Orwell, rileggeva per l‘ennesima volta la bozza del suo ultimo romanzo fumando un sigaro indiano. Era il 1945; e mentre la grande torre dell’orologio informava gli inglesi che era giunta l’ora del tè, l’autore si domandava se, tutto sommato, far pubblicare quel libro fosse stata una buona idea.
Per ironia della sorte, quel dubbio aveva iniziato ad attanagliarlo appena mezz’ora dopo che i suoi sforzi e le sue lunghe insistenze avevano finalmente portato a qualcosa: una piccola casa editrice londinese si era detta disposta a stampare il suo testo.
Quella notizia gli era sembrata un raggio di sole primaverile in una fredda e nebbiosa giornata di pioggia, una piccola lanterna accesa nel buio; ed egli si era avvicinato a quella luce, se ne era riempito gli occhi e si era lasciato cullare dal suo calore. Il suo libro sarebbe stato accessibile a tutti, chiunque avrebbe potuto intuire i messaggi che aveva sparso tra le righe e collegare la società in cui viveva con gli eventi de “La fattoria degli animali”. Quanti occhi si sarebbero aperti, quante bocche avrebbero parlato! Già si figurava uomini e donne più consapevoli che, riuniti nei salotti e nei caffè, si sarebbero scambiati opinioni e idee nuove, magari riscoprendo un pensiero critico e una capacità di ragionamento che avevano dimenticato di possedere.
Ma quella luce, che stava iniziando a sciogliere la sua anima di intellettuale cinico e pessimista, allo stesso tempo lo spaventava.
Ricordava bene ciò che i grandi editori gli avevano risposto quando aveva proposto loro il suo manoscritto:
“Ma cosa vuole che le dica, signor Orwell? Lo stile è semplice e scorrevole, la trama coinvolgente e dinamica, l’ambientazione e i personaggi sono buoni; nel complesso il lavoro è molto valido. Ma i riferimenti, Orwell! Come possiamo pubblicare un libro che potrebbe avere per sottotitolo come nacque l’Unione Sovietica? Con un testo del genere ci fa chiudere i battenti prima di Natale! Non possiamo assumerci questo rischio, lei lo capisce, non è vero, Orwell?”
Oh, certo che capiva! Capiva perfettamente che il suo romanzo avrebbe fatto scalpore… lo aveva scritto proprio a quello scopo! Voleva risvegliare la mente delle persone, impigrita dalla quotidianità e addormentata dalle rassicurazioni fittizie dei giornali.
Un rifiuto in particolare, però, lo aveva colpito profondamente e, forse, proprio da quello derivavano le sue esitazioni:
“Lei è una vecchia volpe, Orwell. Ha scritto sotto forma di favoletta una delle più grandi denunce sociali che io abbia mai letto da quando mi occupo di editoria. Se ne vedono tanti come lei, anche se non si direbbe: scrittori giovani, per la maggior parte, convinti che per cambiare il mondo basti scrivere un libro. Guardi in faccia la realtà, amico mio: la società non vuole accettare ciò che per lei è chiaro come il sole; anzi, finge di non vedere. Concetti troppo rivoluzionari! Dopotutto, Orwell, stiamo uscendo da una guerra; la gente ha voglia di pace e stabilità, non di altri motivi per cui scendere in piazza. Mi dia retta: se anche decidessi di pubblicare il suo romanzo, il massimo beneficio cui potremmo aspirare sarebbe quello di intrattenere i bambini con una storiella di animali parlanti.”
Forse quell’uomo aveva ragione: per le masse, in qualunque periodo storico, sarebbe sempre stato molto più facile uniformarsi alle decisioni di pochi eletti sulle sorti del mondo, prese secondo i propri scopi e i propri interessi.
A ben pensarci — rifletteva, aspirando grosse boccate di fumo — perché sforzarsi di cambiare le cose, di lottare per un’autonomia di opinione e di pensiero che forse non si otterrà mai? Meglio occuparsi di trovare una casa, di raggiungere un reddito sicuro, magari di metter su famiglia; cose concrete contro il concetto astratto di libertà.
Non lo aveva forse scritto lui stesso? Le pecore seguono gli ordini che vengono loro impartiti, senza pensare a ragioni né a conseguenze; le oche, addirittura, cantano gli inni di elogio che vengono loro insegnati senza neppure comprenderne appieno il significato.
Era giusto imporre al pubblico domande e dubbi della portata di quelli che lui proponeva, sempre che riuscissero a coglierli?
E coloro che avrebbero capito, cosa avrebbero fatto? Si sarebbero comportati come l’asino Beniamino? Avrebbero, per cinismo, indifferenza e forse paura, lasciato che i cavalli di nome Boxer soccombessero nello sforzo di raggiungere quella che il sistema faceva solo passare per democrazia? Oppure avrebbero aiutato i loro compatrioti a comprendere l’insensatezza e l’inutilità dei loro sforzi di fronte alle menzogne dei regimi?
Forse si era illuso di poter cambiare le carte in tavola con la sola forza delle parole.
Forse sarebbe stato meglio scrivere qualcosa di più adatto al mondo in cui viveva. Magari avrebbe potuto scrivere ciò che le persone volevano sentirsi dire; un elogio ai governi e alle società chiuse o, meglio, un racconto graziosamente banale da concludersi con il lieto fine. Era questo ciò di cui un popolo appena uscito dalla guerra, vincente ma stremato, aveva bisogno per ibernare la mente ed ignorare le problematiche che, senza sosta, continuavano ad affacciarsi alle finestre della vita, aspettando di essere affrontate.
Il sigaro era quasi finito, come la gioia che aveva colmato la sua anima fino a poco prima.
Mentre se ne stava seduto su quella panchina, osservando le persone che gli passavano dinanzi, inconsapevoli dei suoi dubbi, gli tornarono alla mente le parole conclusive del suo romanzo:
“Dall’esterno le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall'altro.”
Poveri animali! Aveva dato loro la consapevolezza che i loro capi, coloro che avrebbero dovuto garantire la libertà, l’uguaglianza e i diritti, erano diventati come gli antichi padroni, ma non aveva regalato alla loro storia un seguito. Li aveva abbandonati al bivio che separa la strada della sopportazione e dell’ignoranza da quella della rivalsa e del cambiamento, lasciando al lettore la scelta.
Lasciando al lettore la scelta… Ma certo! Era proprio quello il punto cruciale della questione!
L’uomo scattò in piedi, colto d’improvviso da un nuovo barlume di speranza.
Forse molti non avrebbero capito, altri avrebbero ignorato… Ma coloro che avrebbero visto si sarebbero trovati consapevoli di ciò che accadeva nel mondo attorno a loro, e quello sarebbe stato il primo piccolo, grande passo verso una società più aperta e più volenterosa di cambiare.
La torre dell’orologio batté le venti.
Quella sera Eric Blair, in arte George Orwell, tornava a casa saldo nella convinzione che se anche un solo uomo, anche un solo bambino, avesse capito ciò che lui cercava di dire, il suo lavoro non sarebbe stato vano.
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